mercoledì 20 febbraio 2013

Un viaggio nel deserto californiano. La gara di offroad più dura del mondo. Il sogno di una vita.

Nel 2012 in Inghilterra ho provato la grande, immensa emozione di vedere Black Jaws uscire dall’ultima curva della gara, e distinguere in un'enorme nuvola di polvere la nostra bandiera tricolore svolazzante.
E' stato un momento magico, che non si dimentica, e per arrivare lì vale la pena fare qualunque cosa.

Da quel giorno di luglio è iniziata la nostra avventura più grande, il realizzarsi di un sogno a cui noi tutti pensavamo ma non dicevamo ad alta voce, perchè sarebbe suonato irreale.
E pian piano invece è diventato concreto, lo abbiamo potuto toccare, ed è stata la felicità più grande.

Quando Black Jaws è partita in un container abbiamo trattenuto tutti il respiro. L'officina sembrava vuota senza di lei.
Una sera Pier mi ha fatto vedere l'attrezzatura per la gara.. il GPS, l'impianto di areazione dei caschi, le tute, la mappa di Hammertown.
Era tutto pronto, tutto organizzato. Significava solo una cosa: era ora di partire.

Il 5 febbraio 2013, in una giornata soleggiata nel deserto, eravamo in 16 sotto il nostro tendone, a mangiare pastasciutta e carne alla griglia intorno al Black Jaws.
Chi seduto sul rollbar o sui sedili, chi sulle taniche benzina, chi un pò sulle sedie, chi un pò in piedi, perchè la comodità non fa molto Desert Race.
Al pomeriggio noi del Team Acerni eravamo tutti là, tante tute rosse e nere allo Start, tutti vicini, per guardare Pier e Romeo correre per le qualifiche.

Poche parole, abbracci, concentrazione.

Bandiera verde, partenza.
Motore che canta, canta davvero bene.
Ho trattenuto il respiro per tantissimo tempo, tanti minuti, troppi per noi, fino a quando dalla curva riappare il Black Jaws sulla linea d'arrivo con una gomma a terra, ma quella curva non si può dimenticare.
Pier non molla l'acceleratore, la fa alla massima velocità, tutta la macchina si appoggia su quella gomma sgonfia e dentro di me mi dico che la sua determinazione e il suo coraggio vinceranno sempre sulla sfortuna, a prescindere.


L'8 febbraio ci svegliamo alle 4 del mattino. Alle 5.30 siamo al campo base di Hammertown.
Siamo intorno a 0°C, le montagne vicine sono imbiancate.
Noi siamo pronti, siamo emozionati.
In Italia sono pronti, sono emozionati. Ci guardano via streaming.

3, 2, 1. Siamo in diretta.

I ragazzi partono alla grande, acceleratore in fondo e Black Jaws sorpassa e sorpassa.
Al miglio 7 salta l'albero di trasmissione, Pier e Romeo arrivano con la sola trazione anteriore fino al miglio 38, cioè al primo punto di Pit Stop.
Lì ci sono i nostri ragazzi dell'assistenza che riparano in tempo record, ma che per me impotente, sembra infinito.

Il Team Big Country Custom, ormai ritirato dalla gara, con una sportività da lasciare a bocca aperta chiunque, smonta dalla loro macchina i bulloni che ci servono per riparare l'albero. Si buttano anche loro sotto al Black Jaws per ripararla più velocemente.
Questo è un altro momento che non si dimentica.

Black Jaws riparte, più veloce di prima.
Dall'Italia ci tengono aggiornati sulla posizione dei ragazzi in tempo reale.
Ci dicono che hanno passato il Backdoor in tempo eccellente.
Miglio 40
Miglio 60

Io sono al Chocolate Thunder, guardo questa gola di rocce che ho visto tante volte nei filmati su You Tube e in DVD, e penso che ora i ragazzi passeranno da lì. Mi sembra quasi incredibile. Troppe emozioni in troppo poco tempo.
Eccoli che arrivano, mi tremano le mani.

Passano il primo pezzo, si mangiano le rocce, sembra che abbiano fatto questo da sempre.
Salgono veloci, senza esitare. Tutto dura poco, pochissimo.. avrei voluto vederli salire il Chocolate 100 volte, per esultare 100 volte, ma loro hanno una gara da finire e scappano via, con la bandierina italiana che sventola.
Ho le lacrime agli occhi.


Ma la sfortuna è tutta nostra oggi, e l'albero si rompe ancora.
Io mi scoraggio un pò, c'è molto freddo, sono stanca.
Al Pit Stop principale i meccanici si ributtano sotto alla macchina, sono veloci, precisi, la rimettono in sesto.
Pier e Romeo mangiano una banana e risalgono in macchina più agguerriti di prima.
Sono grandi, non mollano, non sentono il freddo gelido e la stanchezza, non si fanno prendere dallo sconforto.

Lì si conclude la mia gara da spettatrice.
I ragazzi continueranno a correre al buio, fino alle 10 di sera, in un tracciato di rock crowling da fare spavento.
Aiuteranno col verricello gli altri team. Avranno altre piccole rotture.

Molleranno solo quando gli organizzatori della gara, dichiareranno concluso il tempo.


Ma non prima.

Io l'8 febbraio ho visto in gara tanti Team eccellenti, prototipi sconvolgenti, con le ali al posto delle ruote. Ho visto un livello di offroad che lascia senza parole.
Ho visto tanto, ma quello che avrò sempre negli occhi e nel cuore sono i due Guerrieri italiani.
 
 
Un ringraziamento a Paolo Baraldi per le meravigliose fotografie, e per aver vissuto questa incredibile avventura con noi.

martedì 29 marzo 2011

Dove si va?



Verso decisioni importanti, punti da mettere alla fine di una frase.


Verso il profumo del baccalà fritto.


Verso un mare nervoso e inospitale, e un altro dolce, che non lasceresti mai.


Verso le risaie, sul treno che le attraversa.


Verso lunghi silenzi.


Verso un oceano di nuvole e luce.


Verso il vento umido che ti bagna i vestiti.


Verso i canti celtici dei pescatori nel porto.


Verso giochi di equilibrio, di pazienza e di costanza.


Verso risate chiassose e vocali lunghe come la costa portoghese.


Dove si va?


Verso OVEST. E poi verso EST.

lunedì 13 settembre 2010

Africa 2008 - Il gigantesco abbraccio nero

Lavumisa, confine tra Swaziland e Sudafrica.
Negli ultimi tre giorni ho viaggiato in Sudafrica, costeggiato il Mozambico e attraversato lo Swaziland da nord a sud. La prossima tappa, passata la frontiera, è la costa est del Sudafrica, le sue infinite spiagge bianche e lo stupefacente ecosistema di St. Lucia.

La coda umana per entrare nel ricco stato africano è un lungo serpentone senza fine.
Intorno allo spoglio ufficio di frontiera, c'è il nulla in tutte le tonalità del marrone.
La steppa desertica, la strada polverosa, una manciata di case di terra.
Intorno a me conto centinaia e centinaia di volti neri, calmi, sereni nella rassegnazione e in attesa di un timbro sul visto e sul passaporto.
Per me quel timbro rappresenta una tappa della vacanza.
Per loro il lavoro, il cibo, l'acqua.

Attendo il mio turno.
La fila non si muove.
Mi siedo a terra, come tutti gli altri.
Le ore passano, mi rilasso e smetto di stringere a me lo zaino in preda all'ansia del turista.
Penso a quello che i miei occhi hanno fotografato negli ultimi giorni di viaggio.
Baracche di fango e lamiera.
Bambini scalzi nei campi.
Donne con i secchi in testa, dirette alla fonte per prendere l'acqua.
Nessuna macchina, se non la mia. Tutti a piedi lungo la strada.
Nessun negozio, un paio di distributori di benzina.
Un intero Stato fatto di terra arida e inospitale. L'esatto contrario della gente che la abita.
Un intero Stato fatto di nulla. E di AIDS.
Quella si, c'è.
Ripenso ad un paragrafo letto sulla Lonely Planet. "Nello stato indipendente dello Swaziland il 25% degli abitanti è affetto da AIDS."
Mi guardo attorno di nuovo, osservo questa immane distesa di volti africani.
Una persona su quattro.
Mi sento sconfitta senza nemmeno aver giocato.
Il sole africano è caldo, eppure ho i brividi dentro, giù in fondo.

Aprono uno sportello apposta per noi bianchi. Siamo solo una decina in realtà, perciò pensano bene di aiutarci a raggiungere velocemente gli alberghi 4 stelle che attendono i turisti oltre il confine.
Ma avvicinandomi allo sportello, la situazione si congestiona sempre più. La calca è impressionante, vengo schiacciata, pressata da un folle e incontrollato abbraccio nero. Diventa impossibile muoversi anche solo di un millimetro.
Respiro piano, certo di evitare il panico, tengo lo sguardo fisso sul mio passaporto.
Passano i minuti, mi sembrano ore.
Riesco a vedere, lontano, l'impiegato allo sportello. E' un afrikaner bianco, il panico sul volto e i vestiti zuppi di sudore.
Passano altri minuti. L'impiegato ormai è vicino.
Riesco ad allungargli il passaporto, riottenerlo timbrato e ad inforcare la porta di uscita.
Respiro.
Respiro ancora.

Sento il mio cuore battere. Forte.
Un attimo fa batteva all'unisono con gli altri, seguiva il ritmo di un lungo concerto di tamburi africani.
Si dice che è in Africa che batte il cuore del Mondo.
Vero.

venerdì 3 settembre 2010

Borneo 2010 - Istantanee da backpacker

La giungla, le foglie immense, le radici che spuntano ovunque e disegnano la terra.

La bambina che mi offre un frutto secco da aprire con i denti.

I templi, il profumo di incenso.

Il Chief, capotribù iban, che racconta la storia dei suoi tatuaggi tradizionali e antichissimi.

I canti del Ramadan nel tramonto di Kuching.

Il ragazzo francese, di cui non conosco nè il nome nè il volto che mi racconta una lunga storia nella notte di Bako.

Lo squittìo dei pipistrelli che tappezzano la grotta delle fate.

Le camerate di viaggiatori. I loro zaini sparpagliati, che parlano di strade lontane.

I noodle e le bacchette. Le frittelle.

La proprietaria del minimarket di Bau che mi da un passaggio in macchina. Io che le scarico i sacchi di riso in negozio.

Josep che mi sorride. Il cielo che si apre.

Il bagno al mattino nel fiume. Solo io, i bambini e la giungla.

Il vino di riso artigianale, ogni bottiglia un sapore diverso.

Nabila che ha 9 anni e parla 4 lingue.

La pioggia che scende piano, senza fretta. All'improvviso scrosciante, senza tregua.

Il sole che asciuga tutto, mi brucia la pelle, sprigiona i profumi.

Il mercato di Seriam, tra dolci fritti, frutta e verdura.

Il mio sarong nuovo, i suoi colori brillanti.

La strada che scorre veloce, sotto le ruote dell'autobus.

Il fiume che scorre lento, sotto la lunga barca di legno.

Le farfalle giganti e coloratissime.

Il viscerale amore di Harun per il mare.

La testolina bianca dell'aquila che vola sopra di me.

Gli scarponi legati allo zaino, che battono il ritmo ad ogni mio passo.


E le orchidee selvatiche che crescono ai bordi delle strade.

Orchidee.

Orchidee dappertutto.

venerdì 30 luglio 2010

Direzione: SUD EST - Borneo Project in solitaria

8 mesi fa, in un'insignificante giornata di gennaio, ho acquistato un biglietto aereo per Kuala Lumpur, Malaysia. Il perchè io l'abbia fatto, sinceramente, non lo so.
Ero sul divano, in pigiama; potevo forse digitare su ebay "Betsey Johnson" e sedare così il mio bisogno di dilapidare il conto corrente, ma la mia non era affatto voglia di shopping compulsivo.
Per fortuna/purtroppo, era molto di più.
Trattasi di un fremito che corre sotto ai piedi, un prurito lento e costante che si placa solo nel momento in cui il boeing inizia a sollevarsi dalla pista.
Quel giorno, al malefico fremito è stato dato un nome e una collocazione spazio temporale: Borneo Project, agosto 2010.
Alcuni amici mi aiutano a stendere l'itinerario, dandomi consigli circa le tempistiche e i punti più belli da visitare. Il planning di viaggio comincia a riempirsi di nomi esotici, quasi impronunciabili, mentre le fotografie di chi è già stato laggiù mi riempiono gli occhi: foreste antichissime, grotte, popoli tribali, fiumi e sentieri, templi, palazzi di cristallo.
Pianifico un tour in Kuala Lumpur, e poi il trasferimento nel Sarawak, il cuore del Borneo Malese. Trekking nei parchi nazionali e poi via nella regione del Batang Ai, per conoscere le popolazioni iban. Qualche giorno sul fiume insieme a loro e poi di nuovo in città, un altro aereo e poi un viaggio in bus che dura tutta una notte. Si approda sul Mar della Cina, in un parco marino tra i più belli del mondo: Perhentian Island.
Lentamente il progetto assume consistenza, è sempre più reale, sempre più vicino.
Stavolta, a differenza degli anni scorsi, viaggio sola.
Non è stata una scelta spirituale o chissà che, bensì una circostanza casuale.
In questi mesi mi sono chiesta spesso se questo viaggio fosse opportuno o no, e se ne fossi veramente all'altezza. In un paio di occasioni, forse un pò scoraggiata da chi non approvava il mio viaggio in solitaria, sono stata sul punto di abbandonare. "Tutto sommato," mi sono detta "non devo dimostrare nulla a nessuno."
Eppure non era quello il punto, semplicemente serviva molto più coraggio a rinunciare ad un'esperienza di vita così intensa, piuttosto che partire sola.
Tuttora trovo pochi consensi al mio progetto. La maggior parte di amici e conoscenti mi guarda smarrita e perplessa mentre racconto l'itinerario del mio viaggio, per poi cambiare discorso con un sorriso imbarazzato, quasi facendomi una cortesia.
Io sorrido di rimando, accarezzando il mio progetto per l'ennesima volta.


Mancano pochi, pochissimi giorni alla partenza.
Biglietti aerei, voucher, prenotazioni, contatti. Tutto è pronto.
Aspetto di sentire l'aereo staccarsi dalla pista; solo allora il mio inseparabile fremito avrà trovato requie.


domenica 19 ottobre 2008

Sono io


Io. Traveller.

...e un giorno succede che mi ritrovo con il mio primo stipendio in mano. Assaporo la libertà di poterne fare ciò che voglio. Dei soldi e in fin dei conti, della mia vita.

Entro in agenzia di viaggi e compro un biglietto. Destinazione Dublino.
Inizia così la affannosa ricerca di me in giro per il mondo, una me speculare ma in terra straniera.

Riesco a trovarmi a Santo Domingo, guardando la maestra di scuola elementare del villaggio.
Mi trovo anche in Messico, nell'acqua fresca dei cenotes. Silvia in versione inglese, canadese, mauriziana, americana..
La foto che apre questo blog rappresenta con fedeltà la me più vera: quella che guarda dall'alto, un fiume che scorre in una grande voragine, come in un Gran Canyon.