lunedì 13 settembre 2010

Africa 2008 - Il gigantesco abbraccio nero

Lavumisa, confine tra Swaziland e Sudafrica.
Negli ultimi tre giorni ho viaggiato in Sudafrica, costeggiato il Mozambico e attraversato lo Swaziland da nord a sud. La prossima tappa, passata la frontiera, è la costa est del Sudafrica, le sue infinite spiagge bianche e lo stupefacente ecosistema di St. Lucia.

La coda umana per entrare nel ricco stato africano è un lungo serpentone senza fine.
Intorno allo spoglio ufficio di frontiera, c'è il nulla in tutte le tonalità del marrone.
La steppa desertica, la strada polverosa, una manciata di case di terra.
Intorno a me conto centinaia e centinaia di volti neri, calmi, sereni nella rassegnazione e in attesa di un timbro sul visto e sul passaporto.
Per me quel timbro rappresenta una tappa della vacanza.
Per loro il lavoro, il cibo, l'acqua.

Attendo il mio turno.
La fila non si muove.
Mi siedo a terra, come tutti gli altri.
Le ore passano, mi rilasso e smetto di stringere a me lo zaino in preda all'ansia del turista.
Penso a quello che i miei occhi hanno fotografato negli ultimi giorni di viaggio.
Baracche di fango e lamiera.
Bambini scalzi nei campi.
Donne con i secchi in testa, dirette alla fonte per prendere l'acqua.
Nessuna macchina, se non la mia. Tutti a piedi lungo la strada.
Nessun negozio, un paio di distributori di benzina.
Un intero Stato fatto di terra arida e inospitale. L'esatto contrario della gente che la abita.
Un intero Stato fatto di nulla. E di AIDS.
Quella si, c'è.
Ripenso ad un paragrafo letto sulla Lonely Planet. "Nello stato indipendente dello Swaziland il 25% degli abitanti è affetto da AIDS."
Mi guardo attorno di nuovo, osservo questa immane distesa di volti africani.
Una persona su quattro.
Mi sento sconfitta senza nemmeno aver giocato.
Il sole africano è caldo, eppure ho i brividi dentro, giù in fondo.

Aprono uno sportello apposta per noi bianchi. Siamo solo una decina in realtà, perciò pensano bene di aiutarci a raggiungere velocemente gli alberghi 4 stelle che attendono i turisti oltre il confine.
Ma avvicinandomi allo sportello, la situazione si congestiona sempre più. La calca è impressionante, vengo schiacciata, pressata da un folle e incontrollato abbraccio nero. Diventa impossibile muoversi anche solo di un millimetro.
Respiro piano, certo di evitare il panico, tengo lo sguardo fisso sul mio passaporto.
Passano i minuti, mi sembrano ore.
Riesco a vedere, lontano, l'impiegato allo sportello. E' un afrikaner bianco, il panico sul volto e i vestiti zuppi di sudore.
Passano altri minuti. L'impiegato ormai è vicino.
Riesco ad allungargli il passaporto, riottenerlo timbrato e ad inforcare la porta di uscita.
Respiro.
Respiro ancora.

Sento il mio cuore battere. Forte.
Un attimo fa batteva all'unisono con gli altri, seguiva il ritmo di un lungo concerto di tamburi africani.
Si dice che è in Africa che batte il cuore del Mondo.
Vero.

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